Ebrei 13,8
viene citato continuamente per avvalorare le tesi che stanno più a cuore. Lo si
toglie dal suo contesto e lo si riempie del significato, che si vuole. Esistono
anche gruppi, che rimandano a tale verso nel titolo e che hanno come intento
quello di presentare un miracolo dopo l’altro. Tale verso, decontestualizzato,
viene usato come una prova per tutto ciò e per altro. Certamente, noi crediamo
nel Dio dei miracoli, ma l’autore scrisse tale verso per avvalorare una «teologia
dei miracoli»? Ci sono anche «taumaturghi cristianizzati» che fanno proprio
appello a tale verso, per convincere che ciò, che fanno loro, sia legittimo e
provenga dal Signore; facciamo bene sempre a «provare gli spiriti» (1 Gv 4,1).
Che cosa
voleva esprimere
veramente l’autore nel contesto della sua
epistola? Molti degli Ebrei, a cui egli scrisse, erano stati illuminati, avevano
appetita la grazia (il
dono celeste, la Parola di Dio,
le potenze del mondo a venire), erano stati,
in qualche modo, toccati dallo Spirito Santo (Eb 6,4) e si erano identificati in
qualche modo con i membri del nuovo patto (Eb 10,32ss). Alcuni di loro si erano
decisi al cento percento per Gesù quale Unto-Re; molti dei loro nomi sono
ricordati nel libro degli Atti. Eppure tanti di quegli Ebrei erano rimasti
sempre sulla soglia, indecisi e traballanti tra la cultura giudaica (dove
avevano anche i loro interessi primari) e il desiderio di appartenere al popolo
del nuovo patto. C’erano motivi socio-religiosi (i discepoli di Gesù
erano espulsi dalle sinagoghe; cfr. Gv 9,22; 12,42) e, perciò, economici
(i seguaci di Gesù erano boicottati dagli altri Giudei) e di prestigio
(non erano eletti dagli altri Giudei nell’amministrazione civile). A ciò si
devono tutti gli appelli dell’autore a non gettare via la loro libertà
(Eb 10,35), a fare la volontà di Dio (ossia a credere al 100% che Gesù era il
Messia promesso, v. 36) e a non tirarsi indietro dal cammino di fede intrapreso
(v. 39). Tutti gli esempi di fede dell’AT (Eb 11) servivano a indurli a
imitare tali testimoni della fede, facendo sul serio con Gesù quale Messia.
Faccio
presente che Ebrei 13,8 bisogna tradurlo efficacemente così: «Gesù è
lo stesso Cristo: ieri, oggi e nei secoli». L’autore era tutto
intento a dimostrare ai suoi interlocutori ebraici che Gesù di Nazareth
era proprio «l’Unto a Re», il Messia promesso. Egli non intendeva tanto
evidenziare la continuità della persona o la sua immutabilità (aspetto
ontologico), quando la continuità del suo ministero nel tempo. L’avverbio
«ieri» intendeva il passato, quando Gesù era in vita in terra (diversi di
loro erano stati contemporanei di Gesù); «oggi» era il presente
dell’autore e dei destinatari della sua epistola; e «nei secoli»
intendeva il futuro da allora in poi. Gesù era rimasto per sempre il Messia
d’Israele e non bisognava aspettarne un altro (cfr. Mt 11,3). Egli era il Re,
che sarebbe tornato per stabilire il Regno di Dio in terra.
Come abbiamo
detto, alcuni fanno di tale verso usi indebiti, proiettandovi dentro ciò,
che vogliono (ad esempio, il misticismo miracolista morboso, che è altra cosa
che credere nel Dio che fa miracoli). Meglio rimanere al contesto di tale
verso, all’intenzione dell’autore e alla verità.
Ciò, che ci
riempie di gioia e speranza, è sapere che Gesù esplica attualmente
il suo ministero di sommo Sacerdote nel santuario celeste (Eb 4,14ss; 8,1ss;
9,11s), che intercede per i rigenerati (1 Tm 2,5s; Eb 7,25; 1 Gv 2,1s) e
che presto tornerà come Re in terra (Fil 3,20; 1 Ts 1,9s), per instaurare
il suo regno di pace e giustizia (Is 32,1; Ger 23,5; 2 Tm 4,1; 2 Pt 1,11;
Ap 11,15). Gesù non è venuto meno nel suo compito di «Unto a Re» né al suo
diritto di regnare personalmente e fisicamente su questo mondo; perciò è lo «stesso
Messia» fin dall’inizio del suo ministero (ieri), lo è al presente e lo
sarà, al suo ritorno, per i secoli dei secoli. Coloro, che aspettano di «incontrare
il Signore nell’aria», per essere «sempre
col Signore», vale questo. «Consolatevi dunque gli
uni gli altri con queste parole» (1 Ts 4,17s).
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18-08-2013; Aggiornamento: |